Il rapporto tra stabilità emotiva, performance e successo
La centralità delle risorse umane è una delle chiavi di lettura del successo di un’azienda.
Oggi diviene sempre più semplice misurare questo legame grazie all’introduzione di sistemi di valutazione, MBO, e cruscotti di analisi dei KPI che in tempo reale ci permettono di monitorare l’andamento aziendale e misurare le performance dei nostri collaboratori.
Ma se misurare è diventato sempre più facile ed immediato, non è altrettanto automatico che si trovi la soluzione giusta a fronte di un calo di performance.
Da anni si parla di motivazione, incentivi ed engagement del personale: molti sono i percorsi formativi che promettono risultati immediati ma la realtà è spesso distante dalle aspettative.
Quello che l’esperienza ci dice, infatti, è che spesso i percorsi motivazionali si limitano a far vivere esperienze piacevoli o al più a far comprendere “razionalmente” la ratio di una determinata criticità. Comprendere con la mente non è però la stessa cosa che interiorizzare e tradurre in modifiche del comportamento.
Ma quindi quale è l’approccio giusto per intervenire in questi casi?
Prima di tutto occorre comprendere quali sono le cause di un calo delle performance perché diverse possono essere le modalità di intervento. Ad esempio:
- In realtà le performance non sono mai state quelle attese?
- I cambiamenti economici ci costringono a cambiare l’assetto aziendale?
- Stiamo per affrontare o abbiamo intrapreso un processo di fusione o cessione?
Questi sono solo alcuni casi esempio e, in qualche caso, estremizzati che ci consentono però di analizzare e capire alcune sfumature differenti.
Sicuramente nel primo caso abbiamo un problema a monte di “engagement” del personale e di stile manageriale. Intervenire in questo caso significa:
- lavorare prima di tutto sul management ed identificare le nuove linee guida (lo strumento suggerito in questo caso è il focus group)
- coinvolgere il personale ed individuare dal loro punto di vista i punti di miglioramento del processo, comprendere eventuali barriere o individuare carenze di competenze che generano insicurezza e mancanza di stimolo verso un determinato compito
Nel caso 2 e 3 in realtà abbiamo un impatto sui collaboratori abbastanza simile seppure derivante da cause differenti ovvero IL CAMBIAMENTO e la paura che questo si porta con sé.
In questo caso gli strumenti di intervento sono percorsi di lavoro che agiscono su:
- resilienza ovvero intervenire sulla consapevolezza, e relativo potenziamento, rispetto alla capacità innata dell’uomo di assorbire i traumi e di superarli modificando la strategia di azione
- autostima ed autoefficacia: sono due facce di una stessa medaglia. L’autostima nasce e si sviluppa fin da piccoli ed è legata alla referenza esterna. L’autoefficacia invece è il riconoscimento delle proprie risorse e la consapevolezza del loro valore e quindi della capacità personale di affrontare una situazione. Banalmente in questo secondo caso devo lavorare sugli strumenti che le persone hanno a disposizione per svolgere al meglio il proprio compito.
- Radicamento e centratura: una volta preparato il terreno di conoscenza e consapevolezza, devo lavorare sul radicamento di queste competenze. Questo step lavora quindi sull’interiorizzazione e lo stimolo alla messa in pratica di un cambiamento. Dobbiamo infatti tenere sempre in considerazione di come lavorano e funzionano il nostro cervello e la nostra mente. Le abitudini, le paure, la ricerca di uno stato di confort sono solo alcuni degli stratagemmi che la mente adotta per boicottare la messa in pratica di un cambiamento che porterebbe anche la mente stessa a cambiare ottica e modalità di funzionamento.
Come fare concretamente?
I primi due livelli sono sicuramente più diffusi e conosciuti dalle direzioni risorse umane per cui preferisco concentrarmi sul terzo punto.
Da anni si studia in laboratorio il funzionamento della mente: le neuroscienze evolvono continuamente e ci permettono di comprendere giorno dopo giorno il “magico” mondo del collegamento mente-cervello-corpo-azione-reazione.
Tra gli studi che sono stati fatti nell’ultimo decennio, una branca in particolare ci è utile per trovare una risposta a quanto detto sopra: lo studio degli effetti della meditazione sul cervello.
Troverete infatti molti sudi che comprovano quanto la meditazione sia in grado di attivare delle aree del cervello spesso inutilizzate e vadano invece a ridurre l’uso di altre aree (più legate al pensiero inconsulto).
Per entrare nel merito devo fare una doverosa premessa: quando si parla di meditazione in realtà si pensa che sia una unica tecnica e spesso viene fatta coincidere con la mindfulness (o presenza mentale). Di fatto esistono invece molte tecniche di meditazione che lavorano su diversi piani della personalità.
La mindufulness in particolare agisce sulla calma mentale e allena la capacità di focalizzazione (o attenzionale) e con il radicamento nel momento presente. Altre tecniche agiscono invece sulla ricerca e focalizzazione delle leve motivazionali profonde, sulla rimozione dei pensieri ricorrenti e sulla deformazione della realtà che spesso è causa di incomprensioni e inutili conflittualità.
Infine ci sono tecniche che lavorano sull’allenamento all’empatia, la comprensione e l’accettazione dei propri limiti e dei limiti altrui.
La forza della meditazione è che permette di sperimentare direttamente su sé stessi i principi e i valori che vengono trasmessi nei corsi teorico-esperienziali normalmente diffusi.
Quindi sono un acceleratore di efficacia, sono un moltiplicatore del ROI della formazione perché attivano dei programmi di interiorizzazione delle leve su cui andiamo ad intervenire. Quindi possiamo dire che di fatto è un elemento che permette di ridurre i costi della formazione (perché riduce l’esigenza di ripetere i percorsi stessi per radicarli) e ne aumenta l’efficacia.
La meditazione però non è come la PNL che ristruttura i processi mentali manipolando la percezione della realtà, la meditazione sollecita la persona a valorizzare le proprie risorse e stimola all’attivazione per contribuire a creare una condizione di benessere per sé e per il team di lavoro.
In particolare è stato sviluppato da Alan Wallace e Paul Ekman un protocollo formativo denominato CEB – Cultivating Emotional Balance – che unisce gli studi di Wallace sulle tecniche meditative e di Ekman sulla generazione e sulla gestione delle emozioni.
Questa metodologia agisce direttamente su quattro livelli di equilibrio che compongono l’atteggiamento mentale ovvero: equilibrio motivazionale, equilibrio attenzionale, equilibrio cognitivo ed equilibrio emozionale. Quando riesco a creare un bilanciamento di queste quattro risorse, la persona accresce la propria centratura, la propria forza e la propria positività diventando un elemento di valore all’interno dell’azienda.
Vi lascio con un’ultima riflessione. Qual è il rapporto tra atteggiamento mentale e performance?
La risposta è che sono direttamente proporzionali. È stato studiato, infatti, che l’atteggiamento mentale è un moltiplicatore dei fattori di forza personali (talento, competenza ed esperienza). Quindi lavorare sull’atteggiamento mentale è il miglior investimento possibile per garantirsi efficientamento e migliori performance aziendali!
L’autore
Anna Piacentini
CEB® Certified Trainer, Change Management Consultant
Esperta di formazione, da oltre 15 anni, si occupa di mappatura del fabbisogno formativo e progettazione di piani di sviluppo. Lavora inoltre su progetti di Change Management supportando imprese ed associazioni che, nell’ottica di un riposizionamento sul mercato, necessitano di inserire strumenti di Stress Management, Leadership ed Emotional Balance. Dal 2014 è trainer certificata sulla metodologia CEB®.
Nel 2010 fonda la sua società - People3.0 – insieme a colleghi esperti in ambiti complementari per offrire ai propri clienti una visione integrata del business model e delle opportunità di sviluppo.